Il mondo delle criptovalute continua a viaggiare a due velocità. Crescono, infatti, gli investitori e le attività commerciali che puntano su questo nuovo sistema economica, ma, contemporaneamente, aumenta anche la diffidenza degli stati a riguardo. I casi più emblematici a riguardo sono quelli che coinvolgono i due colossi mondiali Cina e Usa.
La Cina ha posto il veto sulle criptovalute nel febbraio scorso. Pechino ha chiuso le piattaforme online cinesi dove avvenivano gli scambi di criptovalute. Il governo ha anche provato a mettere la parola fine al trading sulle piattaforme straniere, ma, in questo caso, senza successo. Va detto che per Pechino non ha importanza dove ha sede l’exchange o dove operi: conta solo il fatto che fornisca il servizio ai cinesi che si connettono dalla Cina.
Esistono diversi sistemi per aggirare i controlli. Il primo consiste nel cambiare con frequenza i domini dei siti in modo da tornare subito online, in caso di intervento delle autorità. Il secondo metodo è quello di operare fuori dalla Cina. Il terzo sistema consiste nell’utilizzare piattaforme P2P ovvero quelle che non hanno un indirizzo IP unico. Poiché sono decentralizzate non vi è modo di bloccare tale piattaforma anche se queste operano dal Dragone Rosso. Ciò significa che, nonostante il blocco, i volumi di scambio delle criptovalute non si sono azzerati.
Diverso il caso degli Stati Uniti d’America. Da Washington non è arrivato nessun giro di vite sulle criptovalute, È stato imposto, però, che gli investitori residenti negli USA non possano operare su exchange di criptovalute la cui sede legale sia al di fuori degli Stati Uniti, per salvaguardare le aziende americane. Inoltre, chi investe in criptovalute è soggetto a una tassazione: il commercio di monete digitali è stato, dunque, regolamentato, equiparando queste ultime alle materie prime. Ciò significa che chiunque possieda bitcoin o altcoin è soggetto ad una tassazione. Ciò ha creato una specie di “conflitto di interesse” tra l’IRS (il fisco americano) e le stesse criptovalute. La tassazione implica, infatti, che venga reso noto il nome di chi attua transazioni mediante bitcoin e altcoin. Di fatto, dunque, viene a cadere uno dei capisaldi delle criptomonete, ovvero, la riservatezza.
Per capire quanto bisognerà pagare ogni volta che si effettua una transazione è stato lanciato questo assunto normativo: a fini fiscali, l’IRS considera il Bitcoin e i suoi cugini o repliche crittografiche, come proprietà. Ciò significa che le criptovalute saranno trattate allo stesso modo di un investimento qualificato come azionario, ma non sempre.
Tra Asia e America, alla fine il Continente dove risulta più conveniente investire nelle criptovalute è il terzo incomodo, l’Africa. Nel Continente Nero esiste un solo exchange di criptovalute chiamato Golix, con sede nello Zimbabwe. Qui accade l’esatto opposto che negli altri Stati. Visti i problemi legati all’inflazione è stata praticamente soppressa la moneta locale, decidendo di affidarsi a valute estere. Golix si è confermato piattaforma broker per l’intera Africa, riuscendo a rappresentare un’alternativa economica al dissesto economico che ha avuto tutta la zona. In l’Africa, dunque, le criptovalute vengono viste come una risposta alla crisi economica e non come un problema per l’economia.
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