Sono passati settant’anni da quando – la notte fra il 2 e il 3 marzo 1944 – il treno 8017 si fermò nella galleria ”delle Armi”, nei pressi di Balvano (Potenza), e il fumo tossico delle sue due locomotive uccise circa 600 persone – la maggior parte di quelle che erano a bordo di carri e carrozze allestite alla bell’e meglio – ma il ricordo di quella tragedia non si è ancora cancellato. Infatti, nulla sulla linea ferroviaria Battipaglia-Potenza- Taranto ricorda quel tragico avvenimento, capitato in un’Italia divisa dalla Guerra, immersa in un enorme bagno di sangue: solo se si visita il cimitero di Balvano si scorgono le tracce della sciagura, la più grave della storia italiana per quanto riguarda i trasporti ferroviari, la più atipica in assoluto se si considera che il treno rimase sui binari, non deragliò, non urtò contro un altro convoglio, nessun corpo fu trovato straziato (anzi, tanti rimasero in pose a volte curiose, come la morte per asfissia da monossido di carbonio li aveva sorpresi). L’ “incidente ferroviario” di Balvano si può riassumere in poco tempo, più o meno un’ora: è già notte quando il pesante convoglio, con decine di vagoni, lascia la stazione di Balvano e comincia la salita verso Potenza. E’ trainato da due locomotive a vapore (se ne possono vedere dello stesso gruppo, distinguibili dai numeri 480 e 476, nei musei ferroviari di Trieste e di Portici, ricchi anche di altri ”pezzi” storici), guidate da macchinisti esperti (uno era molto giovane ma già stimato nell’ambiente). Pochi chilometri dopo Balvano il treno entra nella galleria ”delle Armi”, lunga poco meno di due chilometri. Tutto avviene in poco tempo: il treno arranca, si ferma, i frenatori che erano in coda lo bloccano (forse, è fra le ipotesi, male interpretando un segnale dalle locomotive o attendendo un segnale che non arrivò o che non fu dato correttamente, prima conseguenza dell’asfissia sui macchinisti), è inchiodato sulle rotaie; oppure, più semplicemente, il convoglio si fermò per scarsa forza di trazione, i macchinisti dettero vapore cercando una forza introvabile, ma ciò non fece che riempire l’angusta galleria di un fumo mortale. In ogni caso, il carbone a disposizione pare fosse di cattiva qualità, non in grado sprigionare la potenza necessaria a far marciare il treno: i passeggeri passarono dalla vita (moltissimi dal sonno) alla morte in pochi minuti. Chi erano quegli sfortunati viaggiatori? La maggior parte erano partiti dalla Campania per raggiungere la Basilicata o la Puglia portando denaro, oggetti (alcuni insignificanti per noi, oggi, addirittura come chiodi o utensili) o capi di abbigliamento (furono trovate persone che indossavano due cappotti) per comprare o, più spesso, da barattare per avere in cambio del cibo, perché a Napoli e altrove la fame era tanta. Così per mesi, su treni presi d’assalto anche fuori dalle stazioni e dalle fermate previste in orario: vi fu chi avvertì del pericolo, ma nessuno intervenne (la guerra prima di tutto). A notte inoltrata, il treno fu dato per disperso: non era giunto mai alla stazione successiva, a Bella (Potenza). Le ricerche, da Balvano, cominciarono all’alba: pochi superstiti (chi era caduto sulla massicciata aveva respirato ossigeno, ”schiacciato” dall’anidride carbonica), centinaia di morti. La maggior parte – prima allineati sul marciapiedi della stazione di Balvano, divisi fra uomini e donne – furono sepolti in quattro fosse comuni, nel cimitero del paese: 402, dice un registro (altri furono sepolti altrove). Tanti anni dopo, il figlio di una delle vittime fece costruire una cappella nel cimitero di Balvano: su una targa di marmo a un lato della porta è scolpita la morte che ghermisce il treno. Ancora oggi, quella cappella è meta dei discendenti di molti di quei morti, che vengono a pregarvi ad ogni anniversario o ogni 2 novembre. Passano intanto i treni (da diversi anni a trazione elettrica) nella stazione di Balvano, che ora è abbandonata, come tante, e in quella ”galleria della morte”: i viaggiatori che conoscono la storia hanno un brivido, ignari gli altri. Nulla ricorda quelle vittime ma la loro storia – che il 10 marzo sarà rievocata in un convegno nell’Università di Salerno-Fisciano – non vuole passare. (230214)